L'autarchia e le fibre artificiali
L'Autarchia, ovvero il tentativo da parte del regime fascista di raggiungere l'autosufficienza attraverso l'uso di prodotti nazionali, era già parte del progetto di sviluppo negli anni Venti, per esempio con la “Battaglia del grano” ed il tentativo di eliminare l'importazione di cereali. Ma è in seguito alle sanzioni economiche varate dalla Società delle Nazioni nel novembre del '35, a punizione per l'invasione dell'Etiopia, che diviene una vera e propria politica economica. Anzi, il discorso fatto da Mussolini all'Assemblea Nazionale dei Fasci e delle Corporazioni nel '36 delinea l'Autarchia come un vero e proprio “sogno”, allo stesso tempo economico, politico e culturale, tanto da rimanere in auge anche dopo il '37, quando ormai le sanzioni erano state sospese. E' un ideale dove il miglioramento della bilancia dei pagamenti si unisce a prestigio ed autosufficienza, al benessere nazionale, all'identificazione di un nemico esterno nelle demoplutocrazie e alla creazione patriottica di una economia di guerra.
L'obbiettivo era però ben lontano dal poter essere raggiunto, data la scarsità o l'assenza di molte materie prime, e favorì, quindi, il ricorso a molta propaganda e a surrogati oppure all'uso di sostituti artificiali al posto delle materie naturali utilizzate in precedenza. Ma non in tutti i casi il risultato fu di pessima qualità - come con il cuoio da scarpe sostituito dai cascami o, peggio, dal cartone pressato - dato che inventiva e immaginazione imprenditoriale e tecnica furono particolarmente stimolate e portarono ad alcune soluzioni interessanti come con le fibre artificiali e i materiali per l’edilizia e l’arredamento.
Il mondo della moda fu attraversato dalle esigenze autarchiche come da una rivoluzione. In primo luogo perché non si doveva più fare riferimento ai modelli stranieri, in particolare francesi, e poi, perché i materiali stessi per la creazione di abiti e accessori venivano ad essere radicalmente modificati.
La prima fibra artificiale ad essere sfruttata fu il già esistente rayon (o raion) - derivato da fibre di cellulosa di legno o di cotone, che la SniaViscosa produceva già dal 1922 - seguita da prodotti autenticamente italiani come il lanital, realizzato con fiocchi di caseina, la cisalfa, sempre derivata dalla cellulosa, e il cafioc, cotone di fiocchi di canapa. Si incrementò la produzione nazionale (o coloniale), che però, come nel caso del cotone, poteva costare anche tre volte tanto rispetto a quello importato, si mescolarono i materiali – nel '37 c'era solo un terzo di lana da tosa nel totale dei tessuti di lana prodotti in Italia - o si sostituirono quelli di importazione, come il cotone o il lino, con quelli più economici e nazionali, come la canapa o l'orbace, un tessuto di lana grezza pressata.
Il rayon, per superare quell'immagine da parente povero della seta che ancora aveva per molti, fu promosso con un'intensa
campagna, supportata anche da un treno con carrozze vetrina che attraversò il paese cantando i cosiddetti “fili del sole”. Anche il rayon, però, non poté essere considerato veramente italiano fin tanto che, nel '38, per estrarre la cellulosa non ci si affidò alla canna gentile, coltivata in quantità nelle terre appena bonificate della bassa friulana.
L'alta moda internazionale si era già accorta delle grandi opportunità delle nuove fibre. Elsa Schiaparelli nel '32 aveva dedicato un'intera collezione al crêpe di rayon. Ma in Italia l'autarchia nell'alta moda, con l'uso di stoffe sintetiche ricche e bellissime, è solo una facciata per la vera campagna autarchica tessile e generale destinata al paese intero, che se da una parte può approfittare di nuovi prodotti di qualità, dall'altra deve fronteggiare cambiamenti e drastiche riduzioni. Le stoffe di lana mista di qualità peggiore finiranno spesso all'esercito, il lanital, prima delle migliorie postbelliche, tendeva a puzzare e se bagnato ad irrigidirsi e deformarsi, altri tessuti erano recalcitranti al ferro da stiro. La popolazione benestante, però, si era italianamente sacrificata solo fino ad un certo punto, tanto che nel 1937 il deficit di 4 miliardi nella bilancia dei pagamenti fu provocato per la metà dall'importazione di merci di lusso come gioielli, pellicce, abiti d'alta moda e tessuti raffinati.
Maria Chiara Liguori
Natalia Aspesi, Il lusso e l'autarchia. Storia dell'eleganza italiana 1930-1944, Milano, Rizzoli, 1982
Maura Garofoli, Le fibre intelligenti. Un secolo di storia e cinquant'anni di moda, Milano, Electa,1986
Isabella Pezzini, Autarchia, in Omar Calabrese (a cura di), Italia moderna. Immagini e storia di un'identità nazionale, volume quinto, Il paese immaginato (1860-1980), Milano, Electa, 1996